A EXPO LA MARGHERITA PIÙ LUNGA DEL MONDO
Come la pizza è diventata la pizza. Nata come il piatto dei poveri e snobbata per buona parte del ‘900, oggi in Italia ne mangiamo ogni anno 7,6 kg a testa.
Quando si ritrovano per un’occasione formale, gli scozzesi si fanno un punto d’onore di indossare il kilt di tartan, la famosa stoffa a quadri che a seconda dei colori denota l’appartenenza a questo o quel clan. E che per chiunque di noi, insieme alla cornamusa, fa tanto Scozia. Bene, il kilt, il tartan e la cornamusa sono tradizioni inventate. Nel senso che non sono affatto antiche (sono nate infatti tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento) e che qualcuno le ha letteralmente inventate, insieme a tutta la mitologia scozzese, per conferire una patina di nobiltà a una regione particolarmente arretrata e desiderosa di rifarsi un’immagine dopo il suo ingresso nel Regno Unito. La storia del grande inganno è raccontata in un breve ma gustoso saggio dello storico inglese Hugh Trevor-Roper, pubblicato in un volume a cura di Eric Hobsbawm e Terence Ranger che si intitola proprio “L’invenzione della tradizione” (Einaudi, 2012).
Gli storici ci spiegano che le tradizioni di questo tipo, fra le quali ci sono ad esempio moltissime feste popolari italiane nate fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, vengono inventate soprattutto nei momenti di grande cambiamento, nei quali abbiamo bisogno di sapere che quello che facciamo (e quindi chi siamo) ha una rassicurante continuità con un lontano ed inevitabilmente nebuloso passato: se qualcosa di stabile e di certo esiste, ci sentiamo meno disorientati in un presente in cui i vecchi punti di riferimento ci vengono a mancare.
Quello che stiamo vivendo è uno di quei momenti di grande cambiamento. Anche per questo, sollecitati come siamo a cambiare dall’evoluzione delle tecnologie, dalla globalizzazione e da un più incerto ruolo del nostro paese e della nostra cultura, sentiamo un gran bisogno di attaccarci a delle tradizioni anche a tavola. Anzi, soprattutto a tavola, perché quello che mangiamo ci dice chi siamo. Da qui la nostra grande passione per i prodotti tipici del nostro paese, sicuramente buonissimi ma spesso di dubbia (o quanto meno molto recente) tradizione. E fra questi, per quella improbabile meraviglia che è la pizza. Improbabile perché lei sola, fra le mille focacce diffuse un po’ in tutti i paesi intorno al Mediterraneo, è riuscita a diventare un simbolo dell’Italia per noi e nel mondo.
La pizza così come noi italiani la intendiamo è nata infatti all’inizio dell’Ottocento a Napoli, e neppure come piatto di tutti i napoletani. Come ci raccontano in pagine fra l’ironico e il drammatico prima Carlo Collodi e poi Matilde Serao, la pizza era un piatto povero, il cibo di strada del proletariato dei “bassi”, i miseri tuguri del centro della città dove intere famiglie si affollavano in condizioni igieniche spaventose. E tale è rimasta fino agli ultimi decenni del secolo, con la nascita delle prime pizzerie e l’invenzione della pizza Margherita in occasione della visita dei Savoia a Napoli nel 1886.
Il video che proponiamo ci racconta proprio la folgorante ascesa della pizza dai bassi di Napoli al successo nazionale e planetario, “scelta” dai grandi cambiamenti sociali e di costume avvenuti in Italia dopo il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Pur essendo un simbolo fra i più riconoscibili del mangiare italiano, la pizza è praticamente appena nata.
Questa storia ci mostra in modo molto eloquente – e probabilmente oggi politicamente scorretto – che una tradizione alimentare non è qualcosa di eterno e immutabile, da mummificare in un disciplinare di produzione e proteggere con denominazioni di origine. Una tradizione è invece qualcosa che vive nella testa, nelle abitudini e nella cultura di uomini e di donne. E che cambia insieme a loro. Qualcosa che ci si scambia con gli altri, si migliora e poi ci si riscambia, come sempre è avvenuto soprattutto lungo le sponde del Mediterraneo. Le tradizioni alimentari insomma vanno sì conosciute, difese e valorizzate, perché fanno parte della nostra storia e della nostra cultura. Ma il loro posto non è il museo.
Fonte. Expo 2015