Esposizione “Everything is at least once” a Milano
Tutto è almeno una volta / Everything is at least once è il progetto espositivo organizzato in occasione della terza edizione di Studi Festival 3.
La tematica si incentra sul rapporto tra contemporaneo ed arcaico e tra simbolo e segno. Parafrasando le parole di Giorgio Agamben, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente col proprio tempo né si adegua alle sue pretese. Costui è perciò inattuale ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo non nostalgico, egli è capace più degli altri di percepire, afferrare ed abitare il proprio tempo.
«La contemporaneità è, cioè, una singolare regolazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo.
• Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, 2008, p. 9 Tutto può essere almeno una volta / Everything is at least once nasce dall’intenzione di esplorare, sin dalle radici, l’arcipelago storico e immaginifico delle due pratiche degli artisti Raziel Perin e Chiara Principe.
Esso si rispecchia nei processi creativi che a loro volta si dispiegano come i binari di un treno: paralleli, vicini e talvolta ‘incidenti’. Entrambe le pratiche sono infatti ispirate a e hanno figurativamente origine nei tempi arcaici dei primi tentativi comunicativi dell’uomo. «Si moltiplicano le testimonianze tendenti a provare che, a partire dal Paleolitico superiore, l’uomo ha conquistato i mezzi di un pensiero speculativo. […] Fra il 50000 e il 35000 circa si limita a incidere delle serie più o meno ritmate di linee, punti o aste.
Dal 30000-25000 pratica un’arte figurativa ancora frammentaria, le cui forme più esplicite sono degli ovali femminili, degli avantreni o delle teste di animali. Ognuna di queste figure si organizzerà solo molto lentamente nel realismo che vediamo nei grandi monumenti dell’arte parietale. Così si concluderà il primo dei cicli artistici che, dall’astratto e dal simbolico, portano a un realismo sempre più minuzioso ma in un certo modo più freddo.
» • Henri-Jean Martin, Storia e Potere della Scrittura, Laterza, 2009, pp. 5-6 ••• La pratica di Raziel Perin nasce con dei taccuini all’interno dei quali, attingendo alla propria quotidianità e ai ricordi della natìa Santo Domingo, creava un’immaginario fatto di figure disegnate e appunti di vita.
Questa attenzione per la figurazione lo porta ad elaborare uno stile realistico e materico, una qualità, quest’ultima, che lo convince ad addentrarsi nella fascinazione per il segno, per la traccia, aprendo così la strada a nuove sperimentazioni. Inizia quindi a realizzare grandi disegni astratti su tela con l’intento di creare una mappatura del percorso interiore costantemente coltivato nel taccuino, il quale può essere paragonato ad una guida la cui consultazione permette di comprendere ed allargare l’esperienza del mondo esplorato.
Il segno, nel fare il suo percorso, si comporta come l’essere umano che prende man mano coscienza, che parte da un punto d’inizio e si lascia dietro una storia, una scia. Per andare avanti deve capire cosa ha lasciato dietro e capire, ritornando ad Agamben, i limiti del proprio tempo che figurativamente sono gli stessi della tela sulla quale il disegno si dispiega. Conosciuto il percorso intorno a sé, l’uomo cosciente può anche fare dei ‘salti’ da dei punti geografici e temporali della tela – dello spazio – ad altri.
Attraverso queste riflessioni ci si rende conto di come, effettivamente, la figurazione ritorni in superficie: la traccia stessa diventa metaforicamente il soggetto figurativo dell’atto del disegnare. Il linguaggio è da sempre il fulcro della ricerca di Chiara Principe, che parte dall’interesse per questo come primo e primario artefatto culturale. La sua ricerca si inserisce nell’eredità del concettualismo rinnovandosi nell’approccio estetico ed analitico. Negli ultimi anni la sua pratica si è concentrata sul progetto-processo di quello che ha denominato “oggettificazione del linguaggio”. La lingua venne scelta come mezzo da molti artisti negli anni ‘60 e ‘70 a causa della sua natura bidimensionale che permetteva loro di eludere certe dinamiche di mercato che in quel periodo stavano cominciando ad emergere.
L’artista intende sottolineare un’inversione: in senso lato, oggi “oggettificare” il linguaggio è l’atto sovversivo per eccellenza perché mette in luce lo stesso svuotamento del proprio contenuto sovversivo: in altre parole, esso simboleggia l’aver sottomesso l’ordine simbolico stesso (il linguaggio) alle dinamiche feticistico-consumistiche. Riprendendo il concetto filosofico di decostruzione derridiana come strumento artistico, parole o frasi di diverse lingue, scelte per necessità concettuali, formali ed estetiche, vengono ‘smontate’ digitalmente in frammenti affinché la lingua di provenienza non sia più riconoscibile. Questi frammenti vengono poi assemblati e “oggettificati” in composizioni astratte tridimensionali simili a puzzle tra il familiare e l’amorfo che l’artista chiama 3DP (Poesia 3D). Attraverso suddetto processo, partendo dalla loro complessa struttura e passando per la frammentazione e la composizione, emerge una non tanto effettiva quanto metaforica prossimità semantica tra le lingue che allontana dal significato comunicativo diretto per raggiungerne uno nuovo, più universale. Le composizioni 3DP che ne sono il risultato sono infatti nient’altro che manifestazioni di una lingua universale e asemica che non ha paese d’origine, è, piuttosto il prodotto delle complessità del nostro tempo.
Il ricorso al grafismo sembra dunque avere espresso il bisogno provato dall’uomo di visualizzare, fissandole, le sue interpretazioni del mondo esteriore per definirle meglio concretandole, assumendone così il possesso, comunicando con le forze superiori e trasmettendo il proprio sapere ai propri simili. Ed ecco l’universo dei segni e dei simboli.